Nei giorni dell’approvazione del regolamento sull’obbligo vaccinale regionale nei confronti degli operatori sanitari, varato con Deliberazione della Giunta Regione Puglia n.392/2020, viene pubblicata il 19 maggio 2020 un’ennesima sentenza che si occupa di un grave danno da vaccino subito da una dipendente ASL.

In particolare, la sentenza del Tribunale di Sulmona n.109/2019 si esprime sulla richiesta di risarcimento da parte di una dipendente ASL che “in occasione della somministrazione della seconda dose del vaccino antiepatite B veniva colta da grave crisi respiratoria accompagnata da pallore, contrattura muscolare generalizzata e da una forte reazione orticarioide, tanto da dover essere accompagnata d’urgenza al Pronto Soccorso del P.O. di Sulmona, dove le veniva diagnosticata una “reazione da ipersensibilità a terapia vaccinica””.

Inoltre, “le condizioni di salute della stessa subivano nel corso dei mesi successivi continui aggravamenti, tanto da essere costretta, nei mesi e negli anni a venire, a frequenti visite 
mediche e relative cure, così come frequenti erano gli episodi di malessere che la
 costringevano al ricovero ospedaliero; il tutto fino alla cronicizzazione definitiva della 
patologia allergologica, con associato edema della glottide e artropatia psoriasica” e le veniva accertata una menomazione derivante da malattia professionale con riconoscimento da parte dell’INAIL di un’invalidità permanente.

Il Tribunale di Sulmona, nella sentenza di seguito riportata, conferma che l’inoculo del vaccino antiepatite B abbia avuto il ruolo di “trigger” nell’insorgenza della malattia, ma respinge la richiesta di risarcimento, aggiuntivo alla rendita INAIL, avanzata nei confronti della ASL sia per intervenuta prescrizione e sia perchè non si ritiene accertata una responsabilità da parte dell’azienda ospedaliera in tema di adempimento dell’obbligo di sicurezza e in merito al consenso informato.

 

 

Sentenza n. 109/2019 pubblicata il 19/05/2020. R.G. n. 418/2015

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI SULMONA

In funzione del Giudice del Lavoro del Tribunale di Sulmona, in persona della dott.ssa Alessandra
 De Marco, all’udienza del 17 giugno 2019 nella causa di lavoro in primo grado iscritta al n. 418/2015 R.G., vertente

TRA

xxxxxx, elettivamente domiciliata in Sulmona presso lo xxxxxx dell’avv. xxxxxx 
che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso

 

RICORRENTE

E

ASL n.1 AVEZZANO -SULMONA , in persona del xxxxxxxx, elettivamente domiciliata in Sulmona presso lo xxxxxx dell’avv. xxxxxx, che la rappresenta e difende giusta procura in calce alla memoria difensiva

RESISTENTE

ALLIANZ s.p.a., in persona del procuratore speciale, elettivamente domiciliata in xxxxx presso 
lo xxxxxx dell’avv. xxxxxxx e rappresentata e difesa dall’avv. xxxxxxx, giusta procura in calce alla memoria difensiva

TERZA CHIAMATA

pronunciando, ogni diversa domanda, istanza o eccezione respinta, ha emesso, mediante lettura del dispositivo, la seguente

SENTENZA

xxxxxxxxx

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. depositato in data 14.09.2015, la sig.ra xxxxxxx, dopo aver
 esposto che:

– a far data dal 17.06.2002 è stata assunta alle dipendenze della ASL n. 1 –  Avezzano -Sulmona, nel ruolo del personale amministrativo, ed assegnata all’ xxxxxx presso il P.O. di Sulmona (AQ ) in qualità di O.T.A.;

– in virtù della ridetta assunzione, ed in ottemperanza a quanto prescrittole dalla Direzione e dal Medico Competente per la Sorveglianza sui dipendenti ospedalieri a rischio, si sottoponeva agli accertamenti sanitari necessari alla verifica della propria idoneità al lavoro e, nell’ambito della ridetta profilassi, effettuava anche il richiesto vaccino anti-epatite B;

– senonché, in data 17.09.2002, in occasione della somministrazione della seconda dose del vaccino antiepatite, la medesima veniva colta da grave crisi respiratoria accompagnata da pallore, contrattura muscolare generalizzata e da una forte reazione orticarioide, tanto da dover essere accompagnata d’urgenza al Pronto Soccorso del P.O. di Sulmona, dove le veniva diagnosticata una “reazione da ipersensibilità a terapia vaccinica”;

– rientrata al lavoro dopo il periodo di malattia, riprendeva servizio presso il reparto di 
Medicina, per essere poi trasferita presso il reparto di Ortopedia;

– tuttavia, le condizioni di salute della stessa subivano nel corso dei mesi successivi continui aggravamenti, tanto da essere costretta, nei mesi e negli anni a venire a frequenti visite 
mediche e relative cure, così come frequenti erano gli episodi di malessere che la
 costringevano al ricovero ospedaliero; il tutto fino alla cronicizzazione definitiva della 
patologia allergologica, con associato edema della glottide e artropatia psoriasica;

– a fronte della su menzionata situazione, e nonostante apposite e reiterate richieste di idonei accertamenti inoltrate all’indirizzo dell’azienda datrice di lavoro, quest’ultima solo nel 
marzo 2005, riconosceva la ricorrente come “non idonea” permanentemente
 all’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza;

– xxxxx veniva recuperata nel ruolo di coadiutore amministrativo;

– l’infortunio de quo veniva riconosciuto dalla ASL quale ” dipendente da fatti di servizio ” ed
 in conformità agli esiti della valutazione di aggravamento compiuta dalla Commissione
 Medica , l’azienda le riconosceva formalmente l’aggravamento con provvedimento n. 233 del 25.06.2012 ;

– accertato in via giudiziale un grado di menomazione derivante da malattia professionale in misura pari al 16%, l’INAIL le riconosceva un’invalidità permanente di pari grado, con 
diritto alla corresponsione di una rendita totale annua pari ad EUR 2.274,82 e di un indennizzo a titolo di arretrati per EUR 4.151,64;

tutto ciò premesso, lamentando la condotta gravemente negligente della ASL ed in ogni caso produttiva a danno della medesima di gravi lesioni di natura sia fisica che morale, ha adito l’intestato Tribunale per ivi sentir accogliere le seguenti conclusioni: ” … riconoscere il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno biologico e morale, in ogni loro più ampia accezione e connotazione, alla stessa derivato a causa dell’infortunio sul lavoro occorsole in data 17.09.2002 e della conseguente malattia professionale, entrambi cagionati dalla Azienda datrice di lavoro per avere quest’ultima richiesto alla lavoratrice di sottoporsi alla vaccinazione anti epatite B, nell’ambito degli accertamenti sanitari alla stessa prescritti, in carenza di qualsivoglia preventiva informativa circa la facoltatività della vaccinazione stessa e dei relativi rischi; per avere cagionato, a causa della ridetta vaccinazione, complicanze di tipo irreversibile; per la grave omissione posta in essere nei confronti della dipendente per non avere, una volta verificatosi l’infortunio, immediatamente proceduto ad una compiuta ed accurata valutazione del grado di rischio cui in concreto la medesima era sottoposta, continuando a prestare la propria attività nell’ambiente lavorativo; per non avere posto in essere specifici e periodici controlli sulla dipendente a rischio e
 per averla, al contrario, reputata idonea alle specifiche mansioni in concreto dalla stessa svolte, 
pur a fronte delle evidenti e continue reazioni sintomatiche della patologia allergologica 
scatenatasi a seguito dell’infortunio; per essere giunta ad un giudizio di inidoneità permanente
 della dipendente solo a distanza di anni, quando ormai la patologia si trovava ad uno stato irreversibilmente cronico; per l’effetto, condannare la resistente Asl N. 1 Avezzano – Sulmona , in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in xxxxx, al risarcimento del danno nella misura differenziale che sarà determinata a seguito delle dovute decurtazioni dal danno civilmente 
risarcibile – corrispondente a un valore di importo pari ad euro 431.918,00 – delle somme già indennizzate dall’INAIL e percepite dalla ricorrente, nella misura di euro 4.151,64 a titolo di arretrati, ed euro 2.274,82 quale rendita totale annua percepita a far data dal 17.11.2012 e fino ad oggi, e dunque per un totale pari ad euro 6.124,30; il tutto con un residuo importo differenziale di euro 421.642,05 , da decurtarsi ulteriormente degli importi costituenti la rendita vitalizia capitalizzata ancora da percepirsi. Oltre rivalutazione monetaria ed oltre interessi come per legge, a far data dalla maturazione del diritto e fino all’effettivo soddisfo. …”
Con memoria difensiva depositata in data 20.01.2016, si è costituita in giudizio l’ASL n.1, la
 quale, nel contestare nel merito la domanda siccome infondata in fatto ed in diritto, ha eccepito in via preliminare la prescrizione decennale dell’azione risarcitoria nonché la inammissibilità dell’azione per essere stata introdotta con il “rito lavoro” piuttosto che con quello ordinario di cognizione;

ha chiesto, inoltre, l’autorizzazione alla chiamata in causa della RAS s.p.a. , oggi ALLIANZ s.p.a. , al fine di essere manlevata nella denegata ipotesi di soccombenza. 
Autorizzata la chiamata in causa di terzo, si è costituita la ALLIANZ s.p.a, che, contestando
 ogni avversa deduzione e pretesa in ordine all’an che al quantum debeatur , ha eccepito l’esclusione della garanzia per i danni conseguenti a malattie professionali e, riportandosi, quanto al resto, alle contestazioni ed eccezioni sollevate dall’Asl , ha concluso per il rigetto del ricorso. Istruita mediante l’escussione dei testi e l’espletamento di una CTU medico -legale,
 all’odierna udienza la causa, previo deposito di note conclusive autorizzate, è stata discussa e decisa, dando lettura del dispositivo.

Va anzitutto definita l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso, trattandosi nella specie di azione promossa da un dipendente nei confronti del suo datore di lavoro per 
il risarcimento dei danni all’integrità psico-fisica conseguenti a pretesi inadempimenti inerenti allo svolgimento del rapporto di lavoro ; di talché l’odierno giudizio è stato correttamente incardinato dinanzi al giudice del lavoro.

Per quanto riguarda l’eccezione preliminare di prescrizione dell’azione risarcitoria, la stessa 
va accolta in riferimento ad un solo capo della domanda azionata nei confronti dell’azienda per ragioni diverse da quelle prospettate dalle odierne resistenti.

Nella specie, non è in contestazione che – stante la natura contrattuale della prospettata 
responsabilità datoriale – il termine di prescrizione applicabile al caso in esame abbia durata
 decennale.
Va tuttavia precisato che la prescrizione decennale – operante nel caso in cui, come nella
 specie, sia stata esercitata l’azione contrattuale – decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto
 acquisire la piena consapevolezza non solo della malattia , con un danno alla salute apprezzabile, ma 
anche dell’origine professionale della stessa, indipendentemente da valutazioni meramente 
soggettive a lui ascrivibili (cfr. Cass., Sez. lav., 31/05/2010, n. 13284 ; 11/09/2007, n. 19022;
 29/05/1997, n. 4774).

In particolare, il dies a quo di decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento di danni
 alla salute va individuato nel momento in cui la malattia viene percepita o può essere percepita dal
 soggetto che invoca il risarcimento quale danno ingiusto conseguente ad una condotta “illecita”,
 secondo criteri di ordinaria diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche 
(cfr. Cass. SS. UU. 576/2008 e ancora SS. UU. 581/2008 ). In tale direttiva, il giudice deve procedere 
in concreto a valutare la conoscenza o conoscibilità da parte di chi invoca la tutela risarcitoria, sulla
 base di un criterio di diligenza media e delle conoscenze scientifiche che, in un dato momento,
consentono di formulare un giudizio di riconducibilità causale tra il danno patito e la responsabilità 
del soggetto verso il quale è formulata la richiesta risarcitoria.

Orbene, venendo alla fattispecie in esame, si evidenzia che il danno alla salute
 complessivamente lamentato dalla ricorrente scaturisce – sotto il profilo oggettivo – da diverse 
condotte consistenti, da un lato, nella violazione dell’obbligo di informare adeguatamente la 
lavoratrice in merito alla facoltatività della somministrazione del vaccino anti-epatite B e dei 
relativi rischi ad esso connessi e, dall’altro, nel mancato tempestivo accertamento e conseguente 
riconoscimento , da parte della ASL, dell’inidoneità allo svolgimento della mansione specifica con
 conseguente aggravamento della malattia professionale.

Ciò posto, applicando i principi generali sopra richiamati al caso in esame, è stato accertato -
alla luce della documentazione versata in atti – che la ricorrente è venuta oggettivamente a
conoscenza della correlazione causale tra l’insorgenza dell’infermità “reazione pseudo -allergica extra -immunologica sistemica recidivante” e la somministrazione della seconda dose della terapia 
vaccinica anti-epatite B in data 27.05.2005, – ossia allorquando il Comitato di verifica per le cause di servizio, su richiesto parere dell’azienda, ha riconosciuto l’infermità dipendente da “fatti di servizio”.

Orbene, tenuto conto che il periodo di prescrizione decennale deve quindi ritenersi decorrente
a partire dal 27.05.2005 e che il ricorso introduttivo è stato notificato in data 27.10.2015, si rileva che il termine utile per far valere il diritto al risarcimento del danno alla salute derivante dalla violazione dell’obbligo sul consenso informato si è prescritto già alla data del 27.05.2015.

In ogni caso, anche a voler individuare – in ipotesi – il dies a quo del termine di prescrizione 
alla data del 25.06.2012 , – ossia allorquando la ricorrente è venuta a conoscenza dell’aggravamento della malattia professionale -, la richiesta di risarcimento del danno conseguente all’asserita violazione degli obblighi sul consenso informato va respinta per l’infondatezza della stessa, non essendo stata raggiuta la prova del nesso eziologico tra l’inadempimento allegato ed il danno lamentato.

A riguardo va anzitutto evidenziato che nella specie nessuna contestazione è sorta circa la correttezza del trattamento eseguito da personale sanitario sotto il profilo delle concrete modalità di somministrazione della terapia vaccinica.
 In tale direttiva, costituisce principio di diritto affermato dalla Suprema Corte quello secondo 
cui ” in tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute ” (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2847 del 09 /02/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 7237 del 30/03/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 20984 del 27/11/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 2998 del 16/02/2016; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 24074 del 13/10/2017; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 2369 de/ 31/01/2018).
In altri termini, il diritto all’autodeterminazione del paziente deve essere valutato non in
astratto bensì alla luce delle effettive possibilità che questi aveva di rapportarsi di fronte all’atto medico: se non vi erano alternative diagnostiche o terapeutiche e se risulta che il paziente anche se fosse stato correttamente informato, si sarebbe ugualmente sottoposto al trattamento sanitario non è dato rinvenire alcun inadempimento causalmente rilevante.
 La allegazione dei fatti dimostrativi della opzione “a monte” (consenso/dissenso) che il
 paziente avrebbe esercitato viene, quindi, a costituire elemento integrante dell’onere della prova del nesso eziologico tra l’inadempimento e l’evento dannoso, che in applicazione dell’ordinario criterio di riparto ex art. 2697 c.c. , comma 1, compete ai danneggiati. 
Ed è tale prova che risulta carente nel caso di specie, in quanto non soltanto non è stato 
neppure allegato dalla ricorrente l’ipotetico dissenso a sottoporsi alla terapia vaccinica, ove la medesima fosse stata preventivamente informata della facoltatività della stessa ma dalle risultanze istruttorie sono emersi elementi sintomatici che depongono per la presunzione del consenso da parte de la medesima in quanto ed individuabili :

  • nella assenza di soluzioni terapeutiche alternative possibili e nell’inesistenza di accertamenti idonei ad evidenziare la predisposizione della ricorrente a sviluppare reazioni del tipo di quella poi manifestatasi – come in effetti è stato accertato dalla CTU in atti ;
  • nel fatto che già in precedenza la ricorrente aveva espressamente accettato il rischio di possibili esiti negativi essendosi di fatto sottoposta – pochi mesi prima – alla somministrazione della prima dose della suddetta terapia vaccinica anti -epatite B.

Invece, per quanto riguarda il capo della domanda risarcitoria avente ad oggetto i danni subiti 
in conseguenza dell’aggravamento della malattia professionale, il dies a quo del termine di prescrizione decennale va individuato nel momento in cui la ricorrente – una volta cessato lo svolgimento delle mansioni ritenute morbigene – ha avuto consapevolezza dell’irreversibilità della malattia.

Orbene, poiché secondo quanto è emerso dal quadro probatorio in atti, l’accertamento dell’aggravamento è stato compiuto all’esito della valutazione resa dalla Commissione Medica in data 25.06.2012 , nella specie il termine decennale per la prescrizione dei diritti da responsabilità contrattuale ex art.2087 c.c. risulta essere stato utilmente interrotto dalla notifica dell’atto introduttivo in data 27.10.2015.

Tuttavia, anche la pretesa risarcitoria azionata nei termini sopra indicati va respinta nel 
merito.

Come noto l’art. 2087 c.c. stabilisce che il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Coerentemente, in adempimento del principio della massima sicurezza “tecnologicamente possibile” vigente nel nostro ordinamento ai sensi del più volte citato art. 2087 c.c. secondo cui la sicurezza non può essere subordinata a criteri di fattibilità economica o produttiva, lo stesso datore di lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti al fine della protezione della salute e dell’integrità fisica ·dei propri dipendenti in modo conforme al principio direttivo costituzionale di cui all’art. 32 Cost.

Gli obblighi che l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro si riferiscono infatti non 
solo alle attrezzature, ai macchinari ed ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma anche all’ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall’imprenditore devono riguardare sia i rischi insiti in quell’ambiente sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni ed inerenti alla località in cui tale ambiente è posto (Cass. 29 maggio 1990, n. 5002).
Sul piano della ripartizione dell’onere probatorio spetta al lavoratore lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza (nel caso di malattia professionale la nocività dell’ambiente di lavoro) nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre non è gravato dall’onere della prova della relativa colpa del datore di lavoro danneggiante . Tale onere, che invece incombe sul datore di lavoro, si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento, ossia l’aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (fra le tante Cass. Sez. lav., 12 giugno 2017, n. 14566 ).
 Va infine evidenziato che l’art. 2087 c.c. non configura una forma di responsabilità oggettiva 
a carico del datore di lavoro, non potendosi automaticamente desumere dal mero verificarsi del danno l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate: la responsabilità datoriale va infatti collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti 
dalle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento al fine di prevenire infortuni sul lavoro e di assicurare la salubrità e, in senso lato, la sicurezza in correlazione all’ambiente in cui l’attività lavorativa viene prestata, onde intanto può essere affermata in quanto sussista la lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (cfr. tra le tante Cass. nn. 8381 del 2001, 3234 del 1999, 5035 del 1998). 
Si spiega così l’onere del lavoratore di allegare e dimostrare l’esistenza non solo del fatto 
materiale ma altresì delle regole di condotta che assume essere state violate (cfr. Cass. n. 8855 del 2013, cit.): non si tratta – evidentemente – di porre a carico del lavoratore l’onere di dimostrare la colpa del datore di lavoro, stante che ai sensi dell’art. 1218 c.c. è semmai il debitore che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la sua non esatta esecuzione o comunque il pregiudizio che colpisce il creditore derivano da causa a lui non imputabile, ma piuttosto di dimostrare il nesso di causalità (indiscutibilmente normativo, trattandosi di fattispecie omissiva) tra la condotta negligente, imprudente o imperita e il danno concretamente verificatosi. 
Tanto premesso, deve dunque evidenziarsi come nel merito la ricorrente ha dedotto che l’inadempimento imputabile all’azienda è da individuarsi nell’avere omesso – in seguito
 all ‘infortunio occorsole – di sottoporre la medesima a specifici e periodici controlli e di aver formulato il giudizio di inidoneità permanente allo svolgimento delle mansioni relative alla qualifica di xxxxx- con la quale era stata originariamente
 assunta -, solo a distanza di anni, quando ormai la patologia era giunta ad uno stato irreversibilmente cronico.

Invero, va anzitutto rilevato che la stessa ricorrente, – sentita liberamente su fatti di causa -, ha chiarito che, nei sei mesi immediatamente successivi all’infortunio occorsole in data 17.09.2002, non ha lavorato all’interno dei reparti per evitare il contatto con i fattori che avrebbero potuto cagionarle reazioni allergiche.

Né appare che il provvedimento di assegnazione della ricorrente presso la xxxxx sia stato adottato in violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro atteso che, come emerge dal certificato rilasciato dal Medico Competente in data 13.0 3.2003, la ricorrente è stata dichiarata idonea alla mansione specifica con la prescrizione dell’ “uso costante di mascherina e guanti anallergici oltre che degli altri DPI messi a disposizione”, oltre alla “raccomandazione” consistente nel limitare la movimentazione manuale di carichi.
 Neppure il giudizio del Medico Competente appare in sostanza differente da quello successivamente reso all’esito della visita medica collegiale in data 29.04.2003 che ha accertato l’idoneità della sig.ra xxxxx allo svolgimento della generica attività di OTA, considerato altresì che neppure è emersa in giudizio la circostanza che la ricorrente si sia trovata in concreto nell’impossibilità di utilizzare i presidi di sicurezza (mascherina e guanti) oggetto di prescrizione da parte del Medico Competente durante lo svolgimento della propria attività lavorativa presso la xxxxxx.

Inoltre, è in atti che a partire dal 9.05.2005 la sig.ra xxxxx ha assunto la qualifica di
 Coadiutore Amministrativo, con assegnazione della medesima allo svolgimento di mansioni di carattere amministrativo.

Né infine è emerso – sotto il profilo dell’allegazione ancor prima della prova – in che termini 
la lamentata mancata attivazione della sorveglianza  da parte dell’azienda  nel
 biennio ricompreso tra il marzo del 2003 ed il maggio 2005 si sia posta in correlazione causale con l’aggravamento della malattia professionale della ricorrente, considerato che – come è stato 
accertato dalla consulenza d’ufficio – le cui conclusioni appaiono coerenti oltre che complete sotto 
il profilo metodologico – “dopo l’episodio acuto della patologia si è avuta una evoluzione del
 quadro clinico indipendente dalla esposizione ai fattori di rischio professionali presenti nelle mansioni in concreto svolte dalla ricorrente” , avendo altresì precisato che “… episodi ulteriori di intolleranza a farmaci si sono verificati anche dopo tale periodo per farmaci non somministrati a scopo in qualche modo ricollegabile alla attività lavorativa e, non ultimo, anche perché la definizione della ubiquitarietà negli ambienti di vita e di lavoro del non identificato agente patogeno rende di fatto impossibile affermare che la evoluzione dipenda da fattori lavorativi. I predetti episodi sono da porre in relazione ad una predisposizione costituzionale, su base genetica, a sviluppare tali reazioni; detta predisposizione è di natura extraprofessionale, preesistente all’inoculo di vaccino antiepatite B che però avuto il ruolo di “trigger” nell’insorgenza della reazione stessa …”.
Per tutte le considerazioni sopra esposte, nessun inadempimento colpevole – sotto i profili denunciati dalla ricorrente – appare imputabile alla resistente.

Dal rigetto della domanda risarcitoria consegue il radicale superamento della domanda di
 manleva svolta dalla ASL resistente nei confronti della compagnia di assicurazione.

Ricorrono giusti motivi legati, oltre che ad un’autonoma ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini della decisione, alla distinta posizione delle parti del rapporto e, dunque, alla diversa disponibilità delle conoscenze utili all’esatta percezione della questione controversa, per compensare interamente tra le parti le spese del giudizio tra la ricorrente e la ASL nonché tra la ricorrente e la ALLIANZ s.p.a.

Quanto alla ripartizione delle spese di lite tra assicurato e assicuratore relative alla chiamata in manleva, le stesse vanno integralmente compensate in considerazione della natura delle argomentazioni difensive complessivamente prospettate dalle suddette parti.

Le spese della CTU, liquidate come da separato decreto, sono poste in a carico
 di ciascuna delle, parti in solido tra loro, in misura pari ad un terzo.

Sulmona, 17 giugno 2019

Il Giudice