La sentenza della Corte di Cassazione Civile, sez. III, 20 marzo 2018, n. 6846 ripercorre una tragica vicenda che ha portato a due decessi a causa delle vaccinazione e a gravissime patologie da vaccino per una terza persona.
Nel 2004 viene presentato il ricorso nei confronti del Ministero della Salute per accertarne la responsabilità nei tre casi citati, relativi ad un unico nucleo familiare, ma sia il Tribunale che la Corte di Appello rigettano la domanda per prescrizione.
La Cassazione si pronuncia il 20 marzo 2018 e, sulla base del principio della “ragione più liquida”, che consente di respingere la domanda pronunciandosi sulla questione assorbente e di più agevole scrutinio, esamina il profilo di responsabilità del Ministero della Salute.
Secondo il Supremo Collegio, al Ministero della Salute non può essere contestata alcuna condotta illecita, perché solo alcuni anni successivi al verificarsi degli eventi il vaccino fu sostituito per la sua “astratta pericolosità” e al momento della somministrazione vaccinale non erano emersi “elementi diagnostici” o “evidenze per le quali ai bambini non si sarebbe dovuta somministrare la vaccinazione”.
La Cassazione conclude, così, per il rigetto della richiesta di risarcimento.
Corte di cassazione civile, sez. III, 20 marzo 2018, n. 6846
Svolgimento del processo
RITENUTO
Con atto di citazione del 2004, W.A., la moglie V. Z. e i figli D. ed C. convenivano in giudizio il Ministero della Salute chiedendo il risarcimento, iure proprio e iure hereditario, dei danni da morte dei congiunti A.A. e B.A.., asseritamente deceduti per effetto della somministrazione, da parte del SSN, della vaccinazione antipolio, nella specie controindicata a causa di alterazioni congenite del sistema immunitario; nonché dei danni derivanti dall’invalidità permanente dell’attore C.A., causata con le stesse modalità dalla medesima vaccinazione.
Il Tribunale di xxxxx riteneva fondata l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni subiti da C.A. e rigettava nel merito la domanda di risarcimento del danno per i decessi di A.A. e B.A.., ravvisando che l’omessa indicazione della immunodepressione fra le cause di sospensione della somministrazione del vaccino non avesse avuto efficienza causale nella generazione dell’evento, in quanto non erano emersi elementi diagnostici dai quali potesse evincersi ex ante che i bambini fossero affetti da tale immunodeficienza.
Adita dagli attori, nel contraddittorio con il Ministero convenuto, che proponeva appello incidentale, la Corte d’appello di xxxxxx, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la decisione di primo grado, rigettando entrambe le impugnazioni.
Avverso tale decisione ricorrono W.A., D. e C., quest’ultimo assistito dal curatore W.A., anche quali eredi di V.Z, nel frattempo deceduta. A sostegno del ricorso vengono esposti cinque motivi. Il Ministero della salute resiste con controricorso. I ricorrenti hanno depositato memorie ai sensi dll’art. 380-bis co.1 c.p.c.
Motivi della decisione
CONSIDERATO
- In applicazione del principio processuale della “ragione più liquida” – desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. (Sez. U, Sentenza n. 9936 del 08 maggio 2014, Rv. 630490) – è opportuno esaminare anzitutto il quinto motivo del ricorso, relativo al nesso causale, suscettibile di assicurare da solo la definizione del giudizio.
- Con tale motivo si deduce l’omesso esame di fatti decisivi che hanno formato oggetto di discussione fra le parti, individuati nella tardiva introduzione del vaccino Salk e nella mancata adozione di rigorose modalità idonee a minimizzare i rischi della vaccinazione. Nell’ambito del medesimo motivo si deduce altresì la violazione o falsa applicazione dell’art. 1176 c.c.
La parte della sentenza d’appello che si intende censurare con tali doglianze è quella nella quale i giudici di merito sono pervenuti alla conclusione dell’inesistenza di un nesso causale tra il comportamento asseritamente colposo del Ministero e il danno lamentato, osservando che, “anche laddove fosse stato espressamente previsto nel protocollo di somministrazione del vaccino che questa fosse sospesa ai bambini immunodepressi, nel caso di specie si sarebbe comunque proceduto a somministrare il farmaco in quanto ex ante nè A.A. nè B. A. presentavano alcun sintomo o, comunque, una storia clinica da cui poter evincere che fossero bambini immunodepressi”.
- Il motivo è infondato.
La censura in esame non coglie la ratio decidendi che si intende censurare. La decisione della corte territoriale, infatti, si incentra sull’assenza di evidenze per le quali ai bambini non si sarebbe dovuta somministrare la vaccinazione antipolio di tipo Sabin. Sulla base delle risultanze di apposita consulenza tecnica d’ufficio, i giudici di merito sono pervenuti alla conclusione che, anche qualora il Ministero, correttamente operando, avesse indicato fra le ipotesi di sospensione della somministrazione del vaccino la situazione di immunodeficienza, i sanitari avrebbero comunque somministrato il vaccino in entrambi i casi, in quanto non vi erano elementi clinici obiettivi da cui poter diagnosticare nei bambini uno stato di immunodeficienza.
Rispetto a tale ragionamento, i fatti dei quali sarebbe stato asseritamente omesso l’esame, ossia la tardiva introduzione del vaccino Salk e la mancata adozione di modalità idonee a minimizzare i rischi della vaccinazione, non hanno alcuna incidenza.
- In particolare, in tema di responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti alla vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite, questa Corte ha già rilevato che la normativa nazionale aveva previsto in un primo tempo che tale vaccinazione si svolgesse con il sistema del virus attenuato (Sabin) e, successivamente, con quello del virus inattivato (Salk), essendo stata riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale l’astratta pericolosità del primo tipo di vaccino in determinate situazioni.
Conseguentemente, ai fini dell’accertamento della responsabilità del Ministero, una volta dimostrato che il danno si sia verificato in conseguenza della vaccinazione col sistema Sabin, il giudice di merito è tenuto a verificare se la pericolosità di quel vaccino fosse o meno nota all’epoca dei fatti e se sussistessero, alla stregua delle conoscenze di quel momento, ragioni di precauzione tali da vietare quel tipo di vaccinazione o da consentirla solo con modalità idonee a limitare i rischi ad essa connessi (Sez. III, Sentenza n. 9406 del 27 aprile 2011, Rv. 617748).
- Di tale verifica risulta essersi fatta correttamente carico la corte d’appello, anche in considerazione del fatto che la vaccinazione di A.A. avvenne fra il (omissis) e il (omissis) e quella del fratello B.A.. fra il (omissis) e il (omissis), ossia in epoca anteriore rispetto all’insorgenza dei primi allarmi nella comunità scientifica (la citata sentenza n. 9406 del 27 aprile 2011 si riferisce ad una vaccinazione effettuata nel 1981).
D’altro canto, la correttezza di tale verifica non costituisce oggetto di una pertinente censura.
Al tema sono dedicate soltanto le ultime pagine del ricorso (da pag. 91), nelle quali si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art.1176 c.c.
Anche a voler prescindere dalla circostanza che la disposizione in materia di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali è invocata a sproposito nell’ambito di una domanda giudiziale di responsabilità extra contrattuale del Ministero (non risulta, infatti, che gli A. avessero proposto, in alternativa, anche l’azione di responsabilità contrattuale; v. par. 9), si deve rilevare che la stessa si risolve in una generica contestazione delle conclusioni cui è pervenuta la corte d’appello.
In sostanza, i ricorrenti si dolgono, con particolare riferimento alla morte del piccolo B.A.., della circostanza che l’ufficiale sanitario avrebbe dovuto procedere con diversa cautela, in considerazione della sua nascita prematura e del precedente infausto che aveva riguardato il primogenito A..
La questione viene espressamente affrontata dalla corte d’appello, che sul punto osserva: “quanto al piccolo B., la sua qualità di nato prematuro non poteva assumere rilevanza nel caso di specie. Infatti, secondo le linee guida relative alla somministrazione del vaccino ai nati prima del termine, essa doveva essere effettuata secondo l’età cronologica del bambino non corretta dalla prematurità. Nel caso di specie inoltre è pacifico in atti che B. fu vaccinato ben dopo il termine stabilito, all’età di nove mesi, proprio per i timori dei genitori di sottoporre il figlio a tale vaccinazione, vista la pregressa tragica esperienza, di talchè tale elemento non poteva far propendere per una sospensione della somministrazione. Del pari dalla storia clinica di B. non emerge che il bambino avesse contratto patologie infettive rilevanti. Sono stati infatti documentati due ricoveri ospedalieri di tre o quattro giorni per patologie non significative in ordine a un’eventuale sospetto di diagnosi di immunodepressione nel bambino. Quanto poi al precedente decesso del primogenito A., verosimilmente portato a conoscenza dai genitori ai sanitari, è anch’esso un elemento che, ex ante, non poteva indurre i medici a ritenere presenti nei bambini una familiarità per deficit immunitari. All’epoca infatti erano rimaste ancora sconosciute le cause del decesso del piccolo A., tanto che esso è stato ricollegato solo ex post, alla luce dei tragici avvenimenti successivi, ad una sospetta situazione di immunodeficienza familiare: in assenza di alcun elemento da cui poter desumere che il precedente decesso era legato sia alla somministrazione del vaccino che ad una non diagnosticata situazione di immunodeficienza, appariva corretto non procedere alla sospensione della somministrazione”.
Tali argomenti, in base ai quali viene sostanzialmente escluso ogni addebito colposo del Ministero, non risultano fatti oggetto di convincente critica. I ricorrenti, infatti, si limitano ad osservare che al medico vaccinatore non era richiesta una valutazione complessa, ma semplicemente di operare con prudenza e con la diligenza richiesta a qualsiasi “buon padre di famiglia”. Tale asserzione, in sè corretta, non reca però alcuna censura di legittimità alla decisione della corte d’appello che, per l’appunto, ha infatti ritenuto che il medico vaccinatore avesse agito, in relazione al patrimonio informativo di cui era in possesso al tempo della vaccinazione, con la dovuta diligenza.
- Quanto all’adozione – asseritamente tardiva – del vaccino Salk (vaccino inattivato da somministrare ai soggetti per i quali era controindicato il vaccino Sabin) si deve rilevare, da un lato, che la circostanza che l’introduzione di tale farmaco (avvenuta in Italia nel 1984) fosse tardiva (rispetto alle conoscenze medico-scientifiche del tempo) è priva di ogni riscontro, restando legata, nella sostanza, alla sola prospettazione degli attori; per altro verso, secondo quanto riconosciuto dagli stessi ricorrenti, il vaccino Salk era destinato ai soli soggetti immunodeficienti, sicchè si ripropone la questione della mancanza di elementi di anamnesi in forza dei quali si potesse sospettare che i bambini soffrissero di una simile condizione deficitaria. In sostanza, il fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame non risulta decisivo ai fini di inficiare il ragionamento argomentativo della corte d’appello in ordine alla carenza del nesso di causalità.
- In conclusione, il giudici di merito hanno ritenuto – con argomentazioni immuni da vizi di legittimità – l’insussistenza di un nesso di causalità fra la condotta ascrivibile al Ministero della salute e l’esito infausto delle vaccinazionicui sono stati sottoposti i fratellini A..
All’epoca dei fatti non vi era alcuna evidenza dello stato di immunodeficienza congenita da cui erano afflitti. Il decesso di A.A., accaduto qualche anno prima, non era stato posto in correlazione con la somministrazione del vaccino antipolio; questa ipotesi venne presa in considerazione solamente dopo l’esito infausto della due vaccinazione degli due fratellini.
Pertanto, l’eventuale tardiva adozione di protocolli idonei a minimizzare i rischi nei bambini immunodepressi è stata ritenuta inefficiente sul piano causale, dal momento che nulla lasciava presagire che A., da un lato, B. e C., dall’altro, fossero immunodepressi.
In ogni caso, quand’anche fosse stata rilevata la possibile incompatibilità fra il vaccino di tipo Sabin e lo stato di immunodeficienza, negli anni in cui le vaccinazioni sono state eseguite non si sarebbe comunque potuto fare nulla di diverso da ciò che è stato fatto, non essendo ancora disponibile il vaccino Salk. L’ultima delle somministrazioni venne effettuata nel (omissis), allorquando non risulta che non solo il Ministero, ma neppure la comunità scientifica internazionale, avessero sentore dei rischi connessi al vaccino di tipo Sabin per i bambini immunodepressi.
- L’inesistenza del nesso di causalità comporta l’assorbimento delle numerose questioni (primo e secondo motivo) relative alla decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno e alla sua eventuale interruzione. Questione che, ai sensi dell’art.2947 co.3 c.c., riguarda solamente C.A., per il quale il fatto-reato ipotizzabile è quello di lesioni colpose gravissime (con termine di prescrizione di cinque anni) e non anche le morti di A.A. e B.A. (essendo in tal caso configurabile in astratto il diverso reato di omicidio colposo, per il quale opera il più lungo termine prescrizionale di 10 anni).
Infatti, anche a voler ammettere – per ipotesi – che il termine di prescrizione non fosse decorso, l’esito nel giudizio non sarebbe potuto essere diverso dal rigetto della domanda per difetto del nesso causale fra la condotta addebitata al Ministero della salute e i danni riportati dai fratelli A..
- Altrettanto può dirsi in relazione al terzo motivo di ricorso, con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art.112 c.p.c., sostenendo i ricorrenti di aver dedotto fin dal principio la responsabilità non solo extracontrattuale, ma anche contrattuale del Ministero convenuto.
La questione viene dedotta al solo fine di dimostrare che il termine prescrizionale applicabile sarebbe stato quello decennale previsto dall’art.2946 c.c., piuttosto che quello di cui all’art. 2947 c.c. Quindi, per le stesse ragioni esposte nel paragrafo precedente, la doglianza è assorbita dall’accertamento dell’insussistenza del nesso di causalità.
In ogni caso, tutto ciò che potrebbe derivare dalla differenza fra le due azioni (v. par. 10), è opportuno aggiungere che non basta a configurare la formulazione di una specifica domanda di responsabilità contrattuale la semplice indicazione, nelle conclusioni dell’atto di citazione, dell’art.1176 c.c.. Com’è noto, infatti, la rituale formulazione di una domanda giudiziale richiede l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che ne costituiscono le ragioni, non essendo sufficiente rassegnare solo le relative conclusioni (art.163 co.3 n. 4 c.p.c.).
Dalla lettura del ricorso, nei limiti della cui autosufficienza è possibile indagare la fondatezza della doglianza, non risulta che, al di là della generica indicazione dell’art.1176 c.c., gli A. avessero illustrato nell’atto di citazione gli elementi costitutivi della responsabilità contrattuale. L’indagine deve essere limitata al contenuto dell’atto di citazione, non essendo consentito alle parti introdurre domande nuove nel prosieguo del giudizio.
- Con il quarto motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, indicato genericamente nell’inidonea organizzazione del Ministero.
I ricorrenti sostengono, in particolare, che nell’atto introduttivo del giudizio avevano chiaramente rappresentato che il Ministero convenuto era, al tempo delle vaccinazioni di cui è causa, non solo il garante della salute pubblica, con le discendenti responsabilità di controllo sull’operato, ma anche e soprattutto l’organizzatore diretto delle campagne di vaccinazione, attraverso la ramificata rete dei propri organi periferici, vale a dire gli uffici dei Medici provinciali e degli Ufficiali sanitari. Da quanto sopra sarebbe dovuta discendere non solo la responsabilità da “contatto sociale”, ma anche quella derivante dalla violazione del cosiddetto “contratto di spedalità”, per insufficiente o inidonea organizzazione.
Il motivo è infondato.
Per quanto è dato di comprendere, la doglianza è strettamente collegata a quella esaminata nel paragrafo precedente. Infatti, la pretesa violazione del cosiddetto “contratto di spedalità” sembra dedotta, essenzialmente, per sostenere l’applicabilità, sul piano sia della prescrizione, sia dell’onere probatorio, del regime della responsabilità contrattuale, in luogo di quella della responsabilità extracontrattuale.
Consegue che risulta decisivo il rilievo, cui si è pervenuti già nelle pagine precedenti, dell’omessa proposizione di una domanda di responsabilità contrattuale nei confronti del Ministero convenuto. Tale circostanza rende del tutto irrilevante (e quindi non decisivo) il fatto del quale la corte d’appello avrebbe omesso l’esame.
- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le medesime ragioni, non contestate dalle parti, che hanno indotto i giudici di appello a compensare le spese processuali dei giudizi di merito inducono la Corte a compensare anche le spese del giudizio di legittimità.
Sussistono, invece, i presupposti per l’applicazione dell’art.13 comma 1-quater D.P.R. 30 maggio 2002 n.115, inserito dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228 art.1 comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da loro proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. III, Sentenza n. 5955 del 14 marzo 2014, Rv. 630550).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
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